La scia di distruzioni che l’ultima fase della guerra lascia dietro di sé segna per un lungo periodo la politica urbana fiorentina. I pochi bombardamenti subiti dalla città durante il conflitto colpiscono zone periferiche, ma le mine tedesche che nell’agosto 1944 distruggono tutti i ponti fiorentini, a eccezione del Ponte Vecchio, cancellano un tessuto urbano di altissimo valore ambientale, esteso dal Mercato Nuovo fino a piazza Pitti. Il dibattito sulla ricostruzione, subito accesosi, oppone le ragioni di chi vorrebbe restituire alle zone distrutte il loro precedente aspetto, e quelle di coloro che invocano il ricorso a modi e forme moderne. Solo il ponte a S. Trinita sarà poi ricostruito «com’era e dov’era».
Il concorso bandito nel 1945 per la ricostruzione delle zone distrutte si conclude senza vincitori; il piano che successivamente viene elaborato è un compromesso tra esigenze funzionali – che portano a variare larghezza e tracciato di alcune strade, per adeguarle al traffico – aspettative dei proprietari e velleità di ambientazione, ricercata attraverso un linguaggio alludente a forme medievali. Le incessanti contrattazioni tra proprietari ed enti di controllo, inoltre, protraggono il completamento di alcuni edifici fino alle soglie degli anni Settanta.
La ricostruzione non viene inquadrata in un piano urbanistico generale, come chiesto da molti. Nel 1951, tuttavia, il Comune adotta uno studio urbanistico esteso a tutto il territorio metropolitano, che servirà come base programmatica per gli interventi successivi e per la stesura dei Piani Regolatori Generali del 1958 e 1962. Questi documenti non possono che prendere atto dell’avvenuta perdita della forma urbana antica, sostituita da una configurazione magmatica, conseguenza di una crescita priva di chiari indirizzi strutturali. I piani confermano però l’idea di sviluppo verso ovest e preservano dall’edificazione i rilievi collinari attorno a Firenze, una cintura verde che contiene l’espandersi della colmata urbana e che permette di percepire ancora, da molteplici punti panoramici, l’organicità della città antica e delle sue emergenze monumentali.
Tra le zone di espansione realizzate in questi anni, due sono particolarmente interessanti: i quartieri dell’Isolotto (dal 1951) e di Sorgane (dal 1957). L’Isolotto è il primo insediamento fiorentino legato ai programmi di edilizia sociale varati nel dopoguerra, e il suo valore risiede nell’attenzione verso le dotazioni funzionali, incluso il verde pubblico, e nella dimensione sociale che si cerca di raggiungere. Gli spazi collettivi sono centrali anche a Sorgane, che nasce come quartiere satellite al confine est del comune, suscitando un forte dibattito per le ipotesi insediative iniziali, poi abbandonate, che prevedevano una parte del suo sviluppo sulla sommità di una collina.
In altre zone l’espansione soggiace a criteri opportunistici e speculativi. L’assenza di piani di dettaglio produce scoordinamento e consente lo sfruttamento intensivo dei suoli, in un’epoca – gli anni Sessanta – in cui il boom economico e demografico impone una rapida crescita urbana, che presto collega senza soluzioni di continuità i tessuti edilizi fiorentini con quelli dei centri minori circostanti.
Nella parte antica della città gli interventi sono ormai solo puntuali. Si tratta di operazioni di saturazione o di sostituzione, che in qualche caso raggiungono livelli di qualità considerevoli, come nel caso della nuova sede della Cassa di Risparmio, adiacente all’antico ospedale di Santa Maria Nuova. Il loro impatto sulla struttura urbana del centro cittadino è molto limitato.
Ben più distruttivo è invece l’evento catastrofico che si abbatte su Firenze il 4 novembre 1966: l’alluvione. L’acqua dell’Arno supera le spallette dei lungarni e sommerge buona parte del centro antico, distruggendo tutto ciò che invade o che raggiunge: botteghe, laboratori artigiani, opere d’arte. La città si risolleva, ma un’epoca è finita.